martedì 23 giugno 2015

L'anima dello scrivano

Camminando Nostro Signore per il mondo con i suoi apostoli, lo colse la notte in quel luogo che poi fu chiamato Zampa del diavolo. Si vedeva in lontananza una capanna.

– Maestro, volete che ci rifugiamo in quella capanna? – gli chiese San Pietro.
– Sta bene – rispose il Signore – va' a vedere se c'è posto per tutti e chi vi abita, intanto che io mi riposo un momento aspettando gli altri.

Andò San Pietro e quando Nostro Signore rimase solo ecco che venne il diavolo per tentarlo. Satana, vanitoso e fiero della sua potenza, invitò Gesù a scommettere su chi avrebbe lanciato un sasso nel mare distante più di due miglia. Gesù lanciò il sasso che andò a cadere in mare; il diavolo, preso lo slancio, sdrucciolò e diede una tale sculacciata che lasciò impresso sullo scoglio tracce visibili della sua caduta, mentre la lucerna che teneva in mano, battendo sulla pietra, formò un altro incavo nello scoglio; così, per la vergogna, se ne scappò a gambe levate.

Intanto ritornò San Pietro e condusse Nostro Signore verso la capanna per passarvi la notte. Mentre erano in cammino, Gesù gli raccontò la sua avventura col diavolo e, ridendo della figuraccia che questi aveva fatto, entrarono e vi trovarono un vecchio che li accolse assai affabilmente e offrì loro la cena.

Mentre stavano cenando arrivò uno dei discepoli.
– Che cosa vi occorre? – domandò il vecchio.
– Non temere – disse San Pietro – è dei nostri.
– Alla buon'ora – disse il vecchio che aveva creanza – volete cenare?
Gli tagliò una fetta di pane, e l'apostolo si sedette a mensa.
Poco dopo ne entrò un altro, e poi un altro ancora, fino a completare i dodici, e ognuno di essi fu trattato allo stesso modo.
– Via – pensava il vecchio della capanna – pazienza! Che cosa si ha da fare? Un invitato ne invita cento.

L'indomani mattina San Pietro disse al vecchio:
– Colui che hai ospitato è Nostro Signore; dimmi che grazia desideri e io gliela chiederò in tuo nome.
Il vecchio della capanna era un gran giocatore; cosicché gli domandò, senza nemmeno pensarci su due volte, di guadagnar sempre tutte le volte che giocava; ciò gli venne concesso.

Compiuto che ebbe il vecchio il suo tempo su questa terra, disse il Signore alla Morte che andasse da lui. Quando il vecchio vide arrivare la Morte fu pronto a seguirla, e camminando per l'aria vide una coppia di demoni i quali si portavano con loro l'anima di uno scrivano.
– Poveretto! – pensò il vecchio che aveva buon cuore – Il Signore patì per tutti senza escludere gli scrivani. Ehi, cornuti zerbinotti! – gridò ai diavoli – vogliamo fare una partita a carte?
I diavoli, che vanno in solluchero quando vedono un mazzo di carte, poiché furono quelli che le inventarono, accorsero come polli al grano.
– Ma che cosa ci si gioca? – domandarono i demoni – posto che non hai denari con te?
– È vero – rispose il vecchio – però mi gioco l'anima, è di quelle buone, per quella che portate con voi, che non vale un lupino: badate a vincere, se vi riesce.
E si misero a giocare.
Naturalmente il vecchio della capanna vinse la partita e si caricò sulle spalle l'anima dello scrivano.

Quando giunse alla porta del Paradiso, San Pietro gli disse:
– Vecchio della capanna, ti conosco: puoi entrare. Ma che è ciò? Non vieni solo? Che anima nera viene con te!
– No, non vengo solo, poiché dicono che anche Nostro Signore amò la compagnia. Quest'anima è nera perché è tutta macchiata di inchiostro, essendo anima di scrivano.
– Anima di scrivano non entra in Cielo; fila dentro tu solo.
– Quando voi foste nella mia capanna, me ne soffiaste dentro altri undici senza domandarmi licenza, dunque io posso ben fare lo stesso con uno, perché un invitato ne invita cento – disse il vecchio della capanna, entrando in Paradiso con l'anima dello scrivano.

(Leggenda tratta da Leggende e altre storie della Liguria di Ponente di Tarcisio Muratore)



lunedì 22 giugno 2015

La barchetta fantasma

Brano tratto da Leggende napoletane di Matilde Serao

L'hai tu mai vista la barchetta fantasma?

Io non so quando avvenne la storia d'amore che ti narro; l'anno, il giorno e l'ora, non li conosco. Ma che importa?

[...]

Tecla era bella. Il suo volto era di quel candore caldo e vivo che diventa cereo sotto i baci; nei grandi e voluttuosi occhi di leonessa si accendevano strane scintille d'oro: le labbra arcuate erano fatte per quel sorriso lungo, profondo e cosciente che poche donne conoscono; le trecce folte, brune, s'incupivano in un nero azzurro. Si chiamava Tecla, un nome duro e dolce, che nel fantasioso vocabolario dei nomi significa cuore colpevole. Hanno la loro fatalità anche i nomi.

Fanciulla, Tecla aveva ignorato l'amore, orgogliosa ed indifferente; sposa a Bruno, Tecla aveva ignorato l'amore, moglie superba e glaciale. Eppure aveva veduto struggersi, consumarsi d'amore il forte cuore di Bruno, un ruvido ed aspro cuore che non aveva mai amato, ma quel soffio ardente di passione non l'aveva riscaldata, quella voce ansiosa ed appassionata non l'aveva commossa, l'amore di Bruno era rimasto inutile, inutile. Bruno lo sapeva, Tecla glielo aveva detto. Ella non mentiva mai. Era sposa a lui, senza odio, ma senza trasporto.

Bruno non si rassegnava, no. Tecla era il cruccio insoffribile della sua vita, il chiodo irrugginito, ficcato nel cervello, il tronco di spada spezzato ed incastrato nel cuore. [...]

Tecla era virtuosa, di una virtù alta e fiera. Ma come ogni altezza ne trova un'altra che la superi e la vinca, fino a che non si arrivi all'invincibile ed all'incommensurabile, così dinanzi alla virtù di Tecla giganteggiò, immenso, l'amore. Fu una grande sconfitta; fu un gran trionfo. D'un tratto la fierezza si annegò nell'umiltà, l'orgoglio fu ingoiato, travolto.

Era singolarmente bello Aldo, un fascino irresistibile vibrava nella sua voce armoniosa, le sue parole struggevano come fuoco liquido, il suo sguardo dominava, vinceva, metteva nell'anima uno sgomento pieno di tenerezza. [...]

Fu una notte in una sala fulgida di lumi che si videro. Nulla seppero dirsi. Pure fra quei due esseri che si separarono senza un saluto, senza un sorriso, un legame indissolubile era sorto. Camminavano uno verso l'altro, dovendo inevitabilmente incontrarsi.

– Che fai tu alla finestra, Tecla? È un'ora che guardi nel buio, quasi vi scorgessi qualche cosa.
– Guardo il mare, Bruno. Rispondeva lei con la infinita mestizia di chi comincia ad amare.
– La brezza della sera ti fa male, Tecla. Tu sei pallida come un cadavere.
– Lasciami qui, te ne prego.
– Tu sei triste, Tecla. A che pensi?

[...]

In una notte cupa e profonda, dopo venti notti che l'insonnia tormentosa si assideva al suo capezzale bagnato di lagrime, Tecla sentì scuotersi tutta, come se un appello possente la chiamasse. [...]

Ella attraversò la casa ed uscì sul terrazzo che dava sul mare. Aldo era là.
Ella andò da lui. Stettero a guardarsi, nell'ombra. Non un detto, non un sospiro. L'amore condensato, potente, sdegnoso di espansione, li soffocava.
O indimenticabili notti create per l'amore! O eternamente bello golfo di Napoli, dall'amore e per l'amore creato! [...]

Felice colui che godette queste notti carezzando i capelli morbidi di una donna adorata, che stringendola al cuore, potette sognare di rapirla nel paese sconosciuto desiderato dagli amanti, che potette sperare di morire con lei, sotto il cielo che si incurva, nel mare che li vuole. Più di tutti colpevolmente felici e colpevolmente invidiati Aldo e Tecla.

– Aldo, il mare è troppo nero.
– Io t'amo, Tecla.
– Io t'amo, Aldo. Sostienimi col tuo valido braccio, amore. Perché quel barcaiuolo tace?
– Il suo lavoro è duro, forse. Gli daremo del denaro ... mi amerai sempre, sempre, Tecla?
– Sempre. Aldo, quella fiaccola getta una luce sanguigna sui nostri volti e sul mare. Pare che illumini due cadaveri ed una tomba, amore.
– Che temi tu dalla morte?
– Dividermi da te.
– Giammai. Dio deve castigarci egualmente.

Un silenzio si prolungò. Si guardavano, mentre alla loro passione si univa la nota dolce di una tenerezza grave come un presentimento. La barca volava sull'acqua; il barcaiuolo vogava con grande forza, senza volgere il capo a guardare gli amanti.

– Non ti sembra, Aldo, che siamo lontani assai dalla sponda?
– Tanto meglio, dolcezza mia.
– Perché quel barcaiuolo non parla?
– C'invidia forse, Tecla. È giovane, amerà senza speranza.
– Interrogalo, Aldo. Domandagli perché nasconde il suo volto.

D'un tratto il barcaiuolo si volse. Era Bruno. Era la figura dell'odio. Aldo e Tecla si baciarono. E la barca si capovolse sul bacio degli amanti, sul grido di furore di Bruno.
Tre volte vennero a galla gli amanti, abbracciati, stretti con una celestiale beatitudine nel viso, tre volte venne a galla una faccia contratta dalla collera.

In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posillipo, su quella gaia di Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quella fragorosa di Santa Lucia, su quella sporca del Molo, su quella tempestosa del Carmine, la barchetta fantasma appare, corre veloce sull'acqua, gli amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge. Ancora tre volte si rivede quell'eterno bacio, quell'eterno odio.

Ogni notte la barchetta fantasma appare. Ma non tutti la vedono. Dio permette che solamente chi ama bene, chi ama intensamente possa vederla. Appare solamente per gli innamorati, i quali impallidiscono a quell'aspetto. È la prova infallibile e singolare.

L'hai tu vista? L'hai tu vista la barchetta fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla!

mercoledì 13 maggio 2015

La fata Morgana

Narra la leggenda che, ai tempi delle invasioni barbariche, uno dei re conquistatori giunse sulle rive del mare di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia.



Il re barbaro pensava come raggiungere l'isola con la montagna fumante, trovandosi sprovvisto di imbarcazioni per lui e i suoi uomini. 

All'improvviso gli apparve una donna bellissima che offrì l'isola al conquistatore, facendola sembrare a due passi da lui. La Sicilia era vicinissima: guardando verso il mare egli vedeva nitidi – come se potesse toccarli con mano – i monti, le vie di campagna, le spiagge, gli alberi da frutto, le case.

Il re, esultando, balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l'isola con due bracciate. Ma l'incanto svanì e il re affogò miseramente, perdendosi tra le onde mosse da colei che altri non era se non la temibile fata Morgana.



Se in una calda giornata estiva, passeggiando sul lungomare reggino che D'Annunzio definì "il più bel chilometro d'Italia", vi capitasse di vedere vicinissimi paesi e palazzi della costa siciliana, non spaventatevi, non siete anche voi vittime di un incantesimo.

È solamente il cosiddetto fenomeno della Fata Morgana, un'illusione ottica che si verifica nei giorni calmi e limpidi d'estate, in particolari condizioni atmosferiche, quando aria e mare sono immobili al punto da far sembrare così vicine le coste, quasi come se fosse magia.

venerdì 8 maggio 2015

La bella e satanasso

Tanti e tanti anni fa – narra la leggenda – in un mattino d'estate, una bella fanciulla di Campiglia, si era recata verso il monte Sivetto, tra Campiglia e Piamprato, per raccogliere profumata erbetta alpina per le sue mucche. 

Lassù si stendeva un vasto declivio, disseminato di innumerevoli sassi che impedivano la crescita rigogliosa dell'erba. Mentre con la sua piccola falce era intenta a raccogliere qua e là ciuffi d'erba, vide poco lontano un bel giovane, elegantemente vestito, che le veniva incontro.
Istintivamente provò un senso di sorpresa e quasi di timore. Poi fra i due ebbe inizio una lunga conversazione al termine della quale il misterioso giovanotto chiese la mano alla fanciulla.

Lei, ridendo, gli rispose: «Sì, ma ad un patto. Dovrai prima liberare questo pascolo da tutti i sassi, portandoli lontano in qualche burrone della montagna». Il giovane accettò la condizione.

Pochi giorni dopo la pastorella risalì al pascolo, e quale fu la sua meraviglia nel constatare che tutti i sassi erano spariti. Lo strano forestiero sorridente era comparso non si  sa da quale parte, dicendogli che la condizione postagli era stata soddisfatta.

Nella mente della ragazza nacque un sospetto. Chi mai poteva essere quell'individuo che in così poco tempo era riuscito a sgombrare quel pascolo da tutti i sassi? E se fosse...

Lentamente, fissandolo in faccia, la ragazza trasse dal collo una crocetta, segnandosi con essa. Si udì un urlo e il bel giovane sparì in un'improvvisa fiammata, mentre tutt'intorno si spandeva un acre odore di zolfo. Sì, era proprio lui: Satana o Baraino, come veniva chiamato nel dialetto della Valle Soana. Tremante, la fanciulla cadde in ginocchio per ringraziare il Cielo d'averla scampata da una brutta avventura.

Ecco perché in quel vasto pascolo non c'è più un sasso, nemmeno a pagarlo a peso d'oro.


martedì 5 maggio 2015

I mari di Napoli

(tratto da Leggende napoletane, di Matilde Serao)

«Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e magnifico Signore, ha guardato sempre con occhio di predilezione la città di Napoli.

Per lei ha avuto tutte le carezze di un padre, di un innamorato, le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare. Le ha dato il cielo ridente ed aperto, raramente turbato da quei funesti pensieri scioglientisi in lagrime che sono le nubi; l’aria leggera, benefica e vivificante che mai non diventa troppo rude, troppo tagliente; le colline verdi, macchiate di case bianche e gialle, divise dai giardini sempre fioriti; il vulcano fiammeggiante ed appassionato, gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti e innamorati; le dame piacenti, brune, amabili e virtuose; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti.

Poi, per suggellare tanta grazia, le ha dato il mare, ha saputo quel che si faceva. Quello che sarebbero i napoletani, quello che vorrebbero, egli conosceva bene e nel dar loro la felicità del mare, ha pensato alla felicità di ognuno. Questo immenso dono è saggio, è profondo, è caratteristico. Ogni bisogno, ogni pensiero, ogni corpo, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s’appaga, il suo piccolo mare nel grande mare.

Del passato, dell’antichissimo passato è il mare del Carmine. Poco distante dalla spiaggia è l’antica porta di mare che introduce alla piazza; sulla piazza storicamente famosa si eleva il bruno campanile, coi suoi quattro ordini a finestruole che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo grazioso di un bimbo gigante; le casupole attorno sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate da gente minuta. Il mare del Carmine è scuro, sempre agitato, continuamente tormentato. Sulla spiaggia semideserta non vi è l’ombra di un pescatore. Vi si profila qua e là la linea curva di una chiglia; la barca è arrovesciata, forse si asciuga al sole. Dinanzi alla garitta passeggia un doganiere che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impetuoso. Presso la riva una barcaccia nera stenta a mantenersi in equilibrio; dal ponte per mezzo di tavole è stabilita una comunicazione con la terra; vi vanno e vengono facchini, curvi sotto i mattoni rossi che scaricano a riva. Ma non si canta né si grida. Il mare del Carmine non scherza. In un temporale d’estate portò via un piccolo stabilimento di bagni; in un temporale di inverno allagò la Villa del Popolo, giardino infelice, dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici. Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira. Il mare del Carmine era l’antico porto di Parthenope dove approdavano le galee fenicie, greche e romane, ma era porto malsicuro; esso ha visto avvenimenti sanguinosi e feste popolari. È un mare storico e cupo. Sulla piazza che quasi esso lambiva, dieci, venti volte sono state decise le sorti del popolo napoletano. Le onde sue melanconiche hanno dovuto mormorare per molto tempo: Corradino, Corradino. Le onde sue tempestose hanno dovuto ruggire per molto tempo: Masaniello, Masaniello. È il mare grandioso e triste degli antichi che sgomenta le coscienze piccine dei moderni. La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi regna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito, vi passeggia, curvando il capo sotto il peso dei ricordi, fissando l’occhio sulla vita di quelli che furono.

Ma ferve la gente e ferve la vita sul mare del Molo. Non è spiaggia, è porto queto e profondo. L’acqua non ha onde o appena s’increspa; è nera, a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto, dove nulla si riflette. Sulla superficie galleggiano pezzi di legno, brandelli di gomene, ciabatte sformate e sorci morti. Nel porto mercantile si stringono l’una contro l’altra le barcacce, gli schooners, i brigantini carichi di grano, di farina, di carbone, d’indaco, non vi è che una piccola linea di acqua sporca tra essi. Sul marciapiede una grua eleva nell’aria il suo unico braccio di ferro, che s’alza e s’abbassa con uno stridore di lima. Uomini neri dal sole, di fatica e di fumo, vanno, vengono, salgono e scendono. Un puzzo di catrame è nell’aria. Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono infissi pennoni a cui s’attorcigliano intorno grossissime gomene che danno una sicurezza maggiore ai vapori postali ancorati in rada. A destra c’è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco, dove rimangono immobili le corazzate. Dappertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarcazioni pesanti; le voci si chiamano, si rispondono, si incrociano. Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di carbone, atomi di catene, limature di ferro; la sera l’occhio del faro sorveglia il Molo. Il mare del Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccendati, dei marinari adusti, degli ufficiali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d’affari che partono senza un rimpianto. È per essi che il Signore ha fatto il lago nero del Molo.

Del popolo e pel popolo è il mare di Santa Lucia. È un mare azzurro-cupo, calmo e sicuro. Una numerosa e brulicante colonia di popolani vive su quella riva. Le donne vendono lo spassatiempo, l’acqua solfurea, i polpi cotti nell’acqua marina; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano, fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mare, cantano e dormono. È un paesaggio acceso e vivace. Le linee vi sono dure e salienti, il sole ardente vi spacca le pietre. Si sente un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte. I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella via, cascano nell’acqua, risalgono alla superficie, scuotendo il capo ricciuto e gridando di gioia. Sulla riva un’osteria lunga lunga mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi, dall’argenteria brillante. Di sera vi s’imbandiscono le cene napoletane. Suonatori ambulanti di violino, di chitarra, di flauto improvvisano concerti; cantatori affiochiti si lamentano nelle malinconiche canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave e la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso o di sforzato che cela il dolore; accattoni mormorano senza fine la loro preghiera; le donne strillano la loro merce. Di estate un vaporetto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, la bella distrutta, i barcaiuoli offrono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il passaggio fino al vaporetto. Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini piccoli e variopinti; si asciugano al sole, sbattute dal ponente, le lenzuola; le bagnine hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio con la mano. Una folla borghese e provinciale assedia gli stabilimenti, scricchiolano le viottole di legno. Salgono nell’aria serena canti, suoni di chitarra, trilli d’organino, strilli di bimbi, bestemmie di facchini, rotolio di trams, profumi e cattivi odori; rifuggono i colori rabbiosi e mordenti; fiammeggiano le albe riflesse sul mare; fiammeggiano meriggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare; s’incendiano i tramonti sanguigni riflessi sul mare che pare di sangue. È il mare del popolo, mare laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vive e con cui vive il popolo napoletano.

Eppure, a breve distanza, tutto cangia d’aspetto. Dalla strada larga e deserta si vede il mare del Chiatamone. La vista si estende per quel vastissimo piano, si estende quasi all’infinito, poiché è lontanissima la curva dell’orizzonte. Quel piano d’acqua è desolato, è grigio. Nulla vi è d’azzurro e la medesima serenità ha qualche cosa di solitario che rattrista. Le onde si rifrangono contro il muraglione di piperno con un rumore sordo e cupo; lontano, gli alcioni bianchi ne lambiscono le creste spumanti. A sinistra s’eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi, a finestrelle ferrate; il castello spaventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio. Contro le sue basi di scoglio le onde s’irritano, si slanciano piene di collera e ricadono bianche e livide di rabbia impotente. Quando le nuvole s’addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i platani della villetta, allora la desolazione è completa, è profonda. Di lontano appare una linea nera: è una nave sconosciuta che fugge verso paesi ignoti. Alla sera passa lentamente qualche barca misteriosa che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che mette una striscia rossa nel palpito del mare: sono pescatori che stordiscono, con la fiaccola, il pesce. In quelle acqua un giovanetto nuotatore bello e gagliardo, vinto dalle onde, invano ha chiamato aiuto ed è morto affogato; in una notte d’inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è lanciata in mare, donde l’hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto. È il mare che Dio – come dice la vecchia leggenda – ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, per i nostalgici, per gl’innamorati dell’infinito

Invece ride il mare di Mergellina; ride nella luce rosea delle giornate stupende; ride nelle morbide notti di estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimo fili d’argento, ride nelle vele bianche delle sue navicelle che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia. Sulla riva scorre la fontana con un cheto e allegro mormorio; i fanciulli e le fantesche in abito succinto vengono a riempirvi le loro brocche. Uno yacht elegante, dall’attrezzeria sottile come un merletto, dalle velette candide orlate di rosso, si culla mollemente come una creola indolente, porta il nome a lettere d’oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale e bionda: Flavia. Uno stabilimento di bagni, piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola, sulla viottola passano le belle fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, cogli ombrellini dai colori splendidi che si accendono al sole; passano le sposine giovanette, gaie e fresche, attaccate al braccio dello sposo innamorato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo. E nel mare, giù, è un ridere, uno scherzare, un gridio fra il comico spavento e l’allegria dell’acqua fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia rotonde che si sollevano e volti bruni dai capelli bagnati. È la festa di Mergellina, di Mergellina la sorridente, fatta per coloro cui allieta la gioventù, cui fiorisce la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano, fatta per coloro cui la vita è una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sempre vive e profumate.

Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posillipo, il glauco mare che prende tutte le tinte, che si adorna di tutte le bellezze. Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il paradiso, esso lo realizza. È l’armonia del cielo, delle stelle, della luce, dei colori, l’armonia del firmamento con la natura, mare e terra. Si sfogliano i fiori sulla sponda, canta l’acqua penetrando nelle grotte, l’orizzonte è tutto un sorriso. Posillipo è l’altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell’avvenire; Posillipo è tutta la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può volere. Posillipo è l’immagine della felicità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà. È la vita vibrante, fremente, nervosa e lenta, placida e attiva. È il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia. Il mare di Posillipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gl’innamorati di quell’ideale che informa e trasforma l’esistenza.

Quando il Signore ebbe dato a noi il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda gli fa dire: uditelo voi, anima glaciale e cuore inerte. Egli disse: Sii felice per quello che t’ho dato, e se non lo puoi, se l’incurabile dolore ti traversa l’anima, muori nelle onde glauche del mare».


sabato 2 maggio 2015

Il pastore del monte Cristallo

Sul monte Cristallo – racconta la leggenda – si ergeva, un tempo, uno splendido castello, abitato da una bellissima principessa. In molti avevano chiesto la sua mano, ma tutti i pretendenti erano stati rifiutati perché non capaci di superare la prova che ella imponeva loro: raccontare una storia originale e verosimile che la riguardasse.

Molti narratori perdevano il filo, confusi dalla bellezza della giovane; altri esageravano con la fantasia; altri non superavano le domande finali del ciambellano di corte che metteva alla prova i narratori per testare la credibilità del racconto.

Un giorno la principessa udì cantare una canzone che le piacque molto e volle sapere chi l'avesse composta. Venne così a sapere che era di un pastore, Bertoldo, pazzamente innamorato di lei. Il giovane aveva cercato di partecipare alla gara a corte, ma non era stato ammesso al cospetto della principessa perché considerato di troppo umile rango.

La principessa, però, volle dare anche a lui una possibilità e, subito, Bertoldo accorse.

«La storia che intendo narrare – esordì Bertoldo – è di tempi e luoghi lontani dalla Terra. È successo tutto nel Campo dei Beati, il luogo dove si vive nella gioia, prima di essere chiamati alla vita sulla Terra. Lì ognuno ha un suo compito: voi, bella principessa, eravate una regina amata da tutti; io, invece, ero un pastore e passavo tutti i giorni sotto le vostre finestre cantando per voi.
Un giorno, un angelo annunciò che era giunta l'ora di iniziare la vita terrena. Si informò su come ognuno avesse svolto il suo compito e noi due fummo lodati per la nostra diligenza nel compiere il nostro dovere. L'angelo ci permise di esprimere un desiderio che si sarebbe poi realizzato sulla Terra. Io ero seduto accanto a voi e, guardando i vostri meravigliosi occhi azzurri, espressi il desiderio che anche quaggiù il vostro sguardo potesse essere lucente e meraviglioso.
Voi, per ricompensarmi, chiedeste che venisse esaudito il più grande desiderio che io avessi avuto sulla Terra. La mia preghiera è stata esaudita perché voi avete sempre gli stessi celestiali occhi, ma non so se l'angelo ha accolto la vostra richiesta».

La storia vedeva protagonista la principessa ed era verosimile perché nessuno sa cosa succede prima di venire al mondo. Il ciambellano chiese come mai Bertoldo era l'unico a ricordarsi del Campo dei Beati e il pastore, tranquillo, rispose: «Tutti ce ne possiamo ricordare nel momento in cui rivediamo l'ultima cosa vista lì: e io ho rivisto gli occhi della principessa».
Era attendibile, e il ciambellano non riuscì a trovare nient'altro da contestare: la prova era superata.

La principessa sorrise porgendo la mano al pastore, donandogli con quel gesto se stessa e il suo regno.

Il nome di Bertoldo è rimasto da allora legato a monte Cristallo e, infatti, gli abitanti di Ampezzo lo chiamano tuttora "Croda de Bertoldo" (Rupe di Bertoldo).




giovedì 30 aprile 2015

La fata del lago

Nella conca di Prêz si possono trovare le antichissime tracce della presenza di un lago, la cui memoria si perde nel tempo.

Narra la leggenda che, anticamente, sulle amene rive di questo lago, viveva una fata. Ella si prendeva cura del luogo e le acque, limpide e pure, donavano frescura ai boschi circostanti. Scorrendo irrigavano poi prati e campi, e tutto era piacevolmente verde e rigoglioso.

La gente del luogo non aveva mai visto la fata, ma ne conosceva la voce. Ella, infatti, quando era felice cantava e il suo canto dolcissimo si spandeva per tutta la vallata. Si diceva fosse molto bella, ma nessuno lo aveva mai potuto verificare con i propri occhi, perché non voleva essere vista ed evitava la presenza umana, spesso trasformandosi in serpe, per nascondersi meglio.

Un giorno due pastorelli, che riposavano tranquilli al riparo di una roccia, udirono levarsi un canto vicino loro. «È una donna che canta – disse il maggiore – ma non conosco nessuna che sappia cantare così». La voce si avvicinava e i ragazzi rimasero immobili in ascolto, trattenendo persino il respiro. Quando la melodia si spense nessuno dei due osò parlare, per timore di rompere l'incanto creato da quella voce celestiale. 

All'improvviso, da dietro dei cespugli, si materializzò la donna che cantava, avvolta come in un manto da lunghissimi capelli dorati. I pastorelli non avevano mai visto una creatura così bella, né chioma così lucente, né occhi così meravigliosi, simili al colore del cielo specchiato nell'acqua.
«È la fata del lago!» esclamò il più piccino.
«Ssssst!» lo zittì l'altro, timoroso di spaventarla.
Troppo tardi: la fata si era accorta della loro presenza. Si coprì anche il volto con i lunghi capelli e fuggì verso il lago, così rapida e leggera che l'erba non si piegava neppure sotto i suoi passi.
I pastorelli la inseguirono, ma presto la persero di vista e giunti alla riva del lago furono costretti a fermarsi. Ad un tratto, sull'altra sponda, videro una grossa serpe dalle squame d'oro che brillavano al sole. Non sapevano dell'esistenza di serpenti così grandi e fuggirono spaventati, rinunciando a cercare la fata.
A lungo non si sentì più cantare nei pressi del lago, ma spesso chi si trovava a passare da lì avvistava la serpe che, rapida, si sottraeva agli sguardi con un guizzo repentino.

Un giorno un cacciatore di Fontainemore sorprese la serpe mentre, su una roccia, si riscaldava al sole, contemplandosi nell'acqua, come in uno specchio. L'uomo imbracciò il fucile e sparò un colpo. Colpita a morte, la serpe si lasciò scivolare nel lago. In breve le acque ribollirono di sangue e poi, lentamente, il loro livello calò. Le sorgenti fino ad allora abbondanti si inaridirono all'improvviso. La conca di Prêz si prosciugò e scomparve ogni traccia di vegetazione; lungo il pendio, non più irrigato, il suolo si fece arido e brullo. Insieme alla fata serpe morì anche il suo lago.



mercoledì 29 aprile 2015

Il tesoro di Alarico

Sedici secoli, 1605 lunghi anni. Per molto tempo gli occhi dei cercatori di tesori sono stati puntati su Cosenza, in Calabria, e - ancora oggi - la curiosità non è del tutto spenta. 

Narra la leggenda che in questa città, sotto le acque del fiume Busento, sia sepolto il tesoro di Alarico, grande re visigoto.

Il 24 agosto del 410 d.C. i Visigoti, guidati dal loro re Alarico, entrarono a Roma, devastandola e saccheggiandola. La potenza del grande Impero era venuta meno. Dopo tre giorni di razzie, Alarico lasciò la Città eterna carico di ori, preziosi e schiavi. Con il suo esercito si diresse verso sud, con l'intenzione di conquistare l'Africa. Arrivato a Reggio organizzò una flotta, ma una tempesta disperse e affondò le navi. Alarico si diresse dunque di nuovo a nord, ma giunto nei pressi di Cosenza, si ammalò improvvisamente e morì.

Secondo la leggenda, i suoi uomini decisero di seppellirlo insieme al suo tesoro; e per evitare che la tomba fosse profanata deviarono il corso del Busento, per poi ripristinare - dopo la sepoltura - il normale fluire delle acque. Per sigillare in eterno il segreto del luogo, i Visigoti uccisero tutti gli schiavi che avevano lavorato alla realizzazione della tomba, in modo che nessuno potesse ritrovare il luogo in cui, ancora oggi, riposa il grande Alarico e il suo immenso tesoro.