martedì 23 giugno 2015

L'anima dello scrivano

Camminando Nostro Signore per il mondo con i suoi apostoli, lo colse la notte in quel luogo che poi fu chiamato Zampa del diavolo. Si vedeva in lontananza una capanna.

– Maestro, volete che ci rifugiamo in quella capanna? – gli chiese San Pietro.
– Sta bene – rispose il Signore – va' a vedere se c'è posto per tutti e chi vi abita, intanto che io mi riposo un momento aspettando gli altri.

Andò San Pietro e quando Nostro Signore rimase solo ecco che venne il diavolo per tentarlo. Satana, vanitoso e fiero della sua potenza, invitò Gesù a scommettere su chi avrebbe lanciato un sasso nel mare distante più di due miglia. Gesù lanciò il sasso che andò a cadere in mare; il diavolo, preso lo slancio, sdrucciolò e diede una tale sculacciata che lasciò impresso sullo scoglio tracce visibili della sua caduta, mentre la lucerna che teneva in mano, battendo sulla pietra, formò un altro incavo nello scoglio; così, per la vergogna, se ne scappò a gambe levate.

Intanto ritornò San Pietro e condusse Nostro Signore verso la capanna per passarvi la notte. Mentre erano in cammino, Gesù gli raccontò la sua avventura col diavolo e, ridendo della figuraccia che questi aveva fatto, entrarono e vi trovarono un vecchio che li accolse assai affabilmente e offrì loro la cena.

Mentre stavano cenando arrivò uno dei discepoli.
– Che cosa vi occorre? – domandò il vecchio.
– Non temere – disse San Pietro – è dei nostri.
– Alla buon'ora – disse il vecchio che aveva creanza – volete cenare?
Gli tagliò una fetta di pane, e l'apostolo si sedette a mensa.
Poco dopo ne entrò un altro, e poi un altro ancora, fino a completare i dodici, e ognuno di essi fu trattato allo stesso modo.
– Via – pensava il vecchio della capanna – pazienza! Che cosa si ha da fare? Un invitato ne invita cento.

L'indomani mattina San Pietro disse al vecchio:
– Colui che hai ospitato è Nostro Signore; dimmi che grazia desideri e io gliela chiederò in tuo nome.
Il vecchio della capanna era un gran giocatore; cosicché gli domandò, senza nemmeno pensarci su due volte, di guadagnar sempre tutte le volte che giocava; ciò gli venne concesso.

Compiuto che ebbe il vecchio il suo tempo su questa terra, disse il Signore alla Morte che andasse da lui. Quando il vecchio vide arrivare la Morte fu pronto a seguirla, e camminando per l'aria vide una coppia di demoni i quali si portavano con loro l'anima di uno scrivano.
– Poveretto! – pensò il vecchio che aveva buon cuore – Il Signore patì per tutti senza escludere gli scrivani. Ehi, cornuti zerbinotti! – gridò ai diavoli – vogliamo fare una partita a carte?
I diavoli, che vanno in solluchero quando vedono un mazzo di carte, poiché furono quelli che le inventarono, accorsero come polli al grano.
– Ma che cosa ci si gioca? – domandarono i demoni – posto che non hai denari con te?
– È vero – rispose il vecchio – però mi gioco l'anima, è di quelle buone, per quella che portate con voi, che non vale un lupino: badate a vincere, se vi riesce.
E si misero a giocare.
Naturalmente il vecchio della capanna vinse la partita e si caricò sulle spalle l'anima dello scrivano.

Quando giunse alla porta del Paradiso, San Pietro gli disse:
– Vecchio della capanna, ti conosco: puoi entrare. Ma che è ciò? Non vieni solo? Che anima nera viene con te!
– No, non vengo solo, poiché dicono che anche Nostro Signore amò la compagnia. Quest'anima è nera perché è tutta macchiata di inchiostro, essendo anima di scrivano.
– Anima di scrivano non entra in Cielo; fila dentro tu solo.
– Quando voi foste nella mia capanna, me ne soffiaste dentro altri undici senza domandarmi licenza, dunque io posso ben fare lo stesso con uno, perché un invitato ne invita cento – disse il vecchio della capanna, entrando in Paradiso con l'anima dello scrivano.

(Leggenda tratta da Leggende e altre storie della Liguria di Ponente di Tarcisio Muratore)



lunedì 22 giugno 2015

La barchetta fantasma

Brano tratto da Leggende napoletane di Matilde Serao

L'hai tu mai vista la barchetta fantasma?

Io non so quando avvenne la storia d'amore che ti narro; l'anno, il giorno e l'ora, non li conosco. Ma che importa?

[...]

Tecla era bella. Il suo volto era di quel candore caldo e vivo che diventa cereo sotto i baci; nei grandi e voluttuosi occhi di leonessa si accendevano strane scintille d'oro: le labbra arcuate erano fatte per quel sorriso lungo, profondo e cosciente che poche donne conoscono; le trecce folte, brune, s'incupivano in un nero azzurro. Si chiamava Tecla, un nome duro e dolce, che nel fantasioso vocabolario dei nomi significa cuore colpevole. Hanno la loro fatalità anche i nomi.

Fanciulla, Tecla aveva ignorato l'amore, orgogliosa ed indifferente; sposa a Bruno, Tecla aveva ignorato l'amore, moglie superba e glaciale. Eppure aveva veduto struggersi, consumarsi d'amore il forte cuore di Bruno, un ruvido ed aspro cuore che non aveva mai amato, ma quel soffio ardente di passione non l'aveva riscaldata, quella voce ansiosa ed appassionata non l'aveva commossa, l'amore di Bruno era rimasto inutile, inutile. Bruno lo sapeva, Tecla glielo aveva detto. Ella non mentiva mai. Era sposa a lui, senza odio, ma senza trasporto.

Bruno non si rassegnava, no. Tecla era il cruccio insoffribile della sua vita, il chiodo irrugginito, ficcato nel cervello, il tronco di spada spezzato ed incastrato nel cuore. [...]

Tecla era virtuosa, di una virtù alta e fiera. Ma come ogni altezza ne trova un'altra che la superi e la vinca, fino a che non si arrivi all'invincibile ed all'incommensurabile, così dinanzi alla virtù di Tecla giganteggiò, immenso, l'amore. Fu una grande sconfitta; fu un gran trionfo. D'un tratto la fierezza si annegò nell'umiltà, l'orgoglio fu ingoiato, travolto.

Era singolarmente bello Aldo, un fascino irresistibile vibrava nella sua voce armoniosa, le sue parole struggevano come fuoco liquido, il suo sguardo dominava, vinceva, metteva nell'anima uno sgomento pieno di tenerezza. [...]

Fu una notte in una sala fulgida di lumi che si videro. Nulla seppero dirsi. Pure fra quei due esseri che si separarono senza un saluto, senza un sorriso, un legame indissolubile era sorto. Camminavano uno verso l'altro, dovendo inevitabilmente incontrarsi.

– Che fai tu alla finestra, Tecla? È un'ora che guardi nel buio, quasi vi scorgessi qualche cosa.
– Guardo il mare, Bruno. Rispondeva lei con la infinita mestizia di chi comincia ad amare.
– La brezza della sera ti fa male, Tecla. Tu sei pallida come un cadavere.
– Lasciami qui, te ne prego.
– Tu sei triste, Tecla. A che pensi?

[...]

In una notte cupa e profonda, dopo venti notti che l'insonnia tormentosa si assideva al suo capezzale bagnato di lagrime, Tecla sentì scuotersi tutta, come se un appello possente la chiamasse. [...]

Ella attraversò la casa ed uscì sul terrazzo che dava sul mare. Aldo era là.
Ella andò da lui. Stettero a guardarsi, nell'ombra. Non un detto, non un sospiro. L'amore condensato, potente, sdegnoso di espansione, li soffocava.
O indimenticabili notti create per l'amore! O eternamente bello golfo di Napoli, dall'amore e per l'amore creato! [...]

Felice colui che godette queste notti carezzando i capelli morbidi di una donna adorata, che stringendola al cuore, potette sognare di rapirla nel paese sconosciuto desiderato dagli amanti, che potette sperare di morire con lei, sotto il cielo che si incurva, nel mare che li vuole. Più di tutti colpevolmente felici e colpevolmente invidiati Aldo e Tecla.

– Aldo, il mare è troppo nero.
– Io t'amo, Tecla.
– Io t'amo, Aldo. Sostienimi col tuo valido braccio, amore. Perché quel barcaiuolo tace?
– Il suo lavoro è duro, forse. Gli daremo del denaro ... mi amerai sempre, sempre, Tecla?
– Sempre. Aldo, quella fiaccola getta una luce sanguigna sui nostri volti e sul mare. Pare che illumini due cadaveri ed una tomba, amore.
– Che temi tu dalla morte?
– Dividermi da te.
– Giammai. Dio deve castigarci egualmente.

Un silenzio si prolungò. Si guardavano, mentre alla loro passione si univa la nota dolce di una tenerezza grave come un presentimento. La barca volava sull'acqua; il barcaiuolo vogava con grande forza, senza volgere il capo a guardare gli amanti.

– Non ti sembra, Aldo, che siamo lontani assai dalla sponda?
– Tanto meglio, dolcezza mia.
– Perché quel barcaiuolo non parla?
– C'invidia forse, Tecla. È giovane, amerà senza speranza.
– Interrogalo, Aldo. Domandagli perché nasconde il suo volto.

D'un tratto il barcaiuolo si volse. Era Bruno. Era la figura dell'odio. Aldo e Tecla si baciarono. E la barca si capovolse sul bacio degli amanti, sul grido di furore di Bruno.
Tre volte vennero a galla gli amanti, abbracciati, stretti con una celestiale beatitudine nel viso, tre volte venne a galla una faccia contratta dalla collera.

In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posillipo, su quella gaia di Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quella fragorosa di Santa Lucia, su quella sporca del Molo, su quella tempestosa del Carmine, la barchetta fantasma appare, corre veloce sull'acqua, gli amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge. Ancora tre volte si rivede quell'eterno bacio, quell'eterno odio.

Ogni notte la barchetta fantasma appare. Ma non tutti la vedono. Dio permette che solamente chi ama bene, chi ama intensamente possa vederla. Appare solamente per gli innamorati, i quali impallidiscono a quell'aspetto. È la prova infallibile e singolare.

L'hai tu vista? L'hai tu vista la barchetta fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla!